Blog Tour "Mai e Sempre" di Bruno Sebastiani – a cura di Daniela Pandozi

   
Mai e sempre ripropone un’esigenza antica quanto il genere umano: quella di capire il padre, di trovarlo qualora si sia perso, di liberarlo qualora venga rapito, di scoprire la vera ragione per la quale resta ucciso qualora venga assassinato. Già Omero ci parla di Telemaco il quale, una volta adulto, si mette in viaggio alla ricerca di Ulisse, un padre che ricorda appena, un padre di cui sente la mancanza per come era capace di farlo sentire re del mondo.
Lo stesso accade ad Emil Koldau, un giovane nato nel 1980 a Moritzburg, un paese non lontano da Dresda. È il tempo in cui la Germania è ancora divisa in due blocchi contrapposti. È il tempo in cui la parte orientale si chiama ancora DDR e Dresda, capitale della Sassonia, ne fa parte.
Per i primi tre anni Emil Koldau cresce con la sensazione di vivere in un regno di cui lui n’è il principe e suo padre n’è il re. Tre anni, neanche il tempo di crescere abbastanza, e suo padre muore in una maniera terribile e misteriosa, nel senso che il suo cadavere viene ritrovato con quattro proiettili del noto fucile Kalashnikov AK-47 in pieno petto. Il fatto che suo padre sia una persona semplice, senza particolari ambizioni, tant’è che lavora in un allevamento di cavalli, unito al fatto che il Kalashnikov è un fucile in dotazione esclusiva delle forze armate e delle guardie di frontiera, immediatamente disarma il pur solerte commissario del piccolo paese di Moritzburg. Non appena riceve i risultati dell’autopsia, capisce che non ha senso indagare tra i reparti delle forze armate presenti nelle vicinanze, mai nessun comandante gli darà il suo benestare per interrogare gli uomini del suo reparto. Anzi, vista l’aria che tira nella DDR, può essere pericoloso.
Così il caso viene archiviato lasciando aperto un dilemma: Heinrich Koldau è rimasto ucciso nel momento di compiere un reato, oppure perché testimone di un reato commesso da altri? Malvivente o vittima incolpevole, questi gli estremi in cui pare possibile inserire la morte di Heinrich Koldau.
 

La signora Agathe alzò gli occhi sul sergente della Volkspolizei, il suo vecchio compagno di scuola, e lo vide sinceramente dispiaciuto. Era un uomo serio e coscienzioso, per lo meno così lo ricordava, per cui immaginava che il pensiero di chiudere un caso senza in realtà chiuderlo affatto lo facesse sentire inadeguato. Immaginava che da qualche parte, magari ancora incartato, conservasse ancora il concetto della giustizia che gli era stato consegnato durante la scuola per sottufficiali della Volkspolizei. Ma ecco, ora si accorgeva che quel concetto aveva valore solo in alcune circostanze, con la gente semplice, col popolo minuto, con gli studenti, coi lavoratori, coi pensionati. Ora si accorgeva, con suo vivo dispiacere, che quel concetto mostrava tutta la sua nebulosità con gli organi governativi, con gli apparati del partito, con le forze armate, con la Stasi e anche con gli IM, gli informatori segreti - un vero esercito -, grazie ai quali la Stasi controllava in modo capillare l’intera popolazione.
Ma forse non c’è nazione al mondo che possa dirsi immune da questo difetto, non c’è nazione in cui la medaglia della giustizia non abbia il suo rovescio, spesso anche più di uno.

 
Intanto il tempo passa, il piccolo Emil Koldau cresce, lascia Moritzburg e va a vivere nel settore est di Berlino, una Berlino ancora divisa in due, da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Emil Koldau non ha modo di capire la complessità della situazione che regna nella città, a lui preme solo seguire le orme dello zio che gli insegna i primi rudimenti dell’arte del restauro. Fin da subito decide che da grande farà il restauratore oppure il corniciaio. Ma ancor prima di diventare grande, nel 1989, cade il muro, la città di Berlino si riunifica e la Germania azzera i decenni più disastrosi della sua storia per ricominciare daccapo.
Nel fervore della riunificazione tutto sembra possibile, così Emil Koldau, nella bottega che gli ha lasciato lo zio, ai lavori di restauro affianca una attività più ambiziosa destinando parte dello spazio ad una galleria espositiva. Ma la morte misteriosa di suo padre, una morte mai risolta, è come un angolo buio nella sua mente, lui non ci pensa, ma a volte accade qualcosa che lo costringe a pensarci. Difatti una sera, quando Emil Koldau ha ventisei anni, per la suggestione ricavata dalla visione di un film, decide che ha aspettato fin troppo, è venuto il tempo di far luce sulla morte di suo padre.
Torna a Moritzburg dove c’è ancora la vecchia madre, prova a chiedere, prova a rintracciare gli amici che aveva in quel tempo suo padre, prova a ricostruire le sue frequentazioni, ritrova il commissario che svolse le prime indagini prima di chiudere il caso per l’impossibilità di coinvolgere le forze armate.
Ed infine…MAI si vorrebbe svelare un mistero che bene si sarebbe fatto a lasciare misterioso…
Un mistero che affonda le sue radici in un altro tempo:
 

Si era nel febbraio del 1945. Heinrich Koldau aveva dodici anni: troppo giovane per poter prendere parte attiva alla guerra in corso e troppo grande per lasciare che sua madre provvedesse ai suoi bisogni, senza contare che in quel tempo durissimo, visto come s’era dissanguata la Germania per sostenere lo sforzo bellico, nemmeno ci si poteva aspettare che lo facesse l’amministrazione pubblica.”
“Heinrich Koldau e i suoi quattro amici stavano sempre insieme, perché le necessità di uno erano le necessità di tutti. E quando qualcuno trovava qualcosa, già sapeva in anticipo che avrebbe dovuto dividerla in cinque parti. La cosa poteva andare bene quando si trovava una mela o qualcosa di simile, dividerla in cinque parti non era cosa eccessivamente complicata. Andava bene anche si trattava di un tozzo di formaggio indurito tanto da sembrare legno. Non andava più bene quando uno di loro trovava un uovo di quaglia o di colombaccio: con tutta al buona volontà era impossibile farne cinque parti. In quel caso la regola veniva disattesa, ma il patto restava valido lo stesso, tutti per uno e uno per tutti, come i mitici moschettieri.

 
Il romanzo si snoda dunque in tre spazi temporali diversi, tre diversi momenti della storia di un piccolo paesino e di una grande città come Berlino, posti inseriti a loro volta in un contesto ancora più vasto, la Germania dell’est e se vogliamo dirla tutta, della Germania intera, tante persone unite dalla stessa lingua ma separate, dopo la guerra, da due diversi e contrapposti modi di pensare che hanno influenzato il modo di pensare e di vivere delle persone ivi residenti. Due parti simbolo a loro volta di due mondi: quello capitalista e quello comunista.
 
I personaggi sono inseriti bene nell’ambiente in cui si muovono, non potrebbero esistere in un luogo diverso per come agiscono, per come pensano, per come si rapportano tra di loro. Personaggi credibili ben inseriti nel luogo e nel tempo nel quale stanno vivendo.
 
E naturalmente, come in ogni buon romanzo che si rispetti, c’è anche una storia d’amore:

In realtà se c’è una cosa che li spaventa è l’immediatezza con cui dei loro sentimenti hanno preso coscienza, è come se non vi fossero preparati. Ora non tornerebbero più indietro, ma è come se in un istante di leggerezza si fossero avventurati in un territorio sconosciuto, che ha bisogno di tutta la loro accortezza per essere esplorato. E questo stanno facendo in questo scorcio di novembre del 2006, con la neve fuori e col caldo dentro, lo esplorano, ne saggiano la consistenza, ne scoprono le potenzialità e procedono con circospezione, come se qualcuno li avesse messi in guardia contro probabili trabocchetti e in questa fase, che abbiamo definito esplorativa, capita spesso che Christine Hossner vada avanti ed Emil Koldau resti indietro.

 
 
Per concludere: per chi si dovesse ritrovare oggi a passare, magari per caso per il paesino di Moritzbourg, come in fondo è successo a me, potrebbe respirare la stessa aria che si respira nel romanzo: l’allevamento dei cavalli, galline e oche che passeggiano tranquillamente in strada, la coltivazione dei mirtilli, un paesino piccolo, tranquillo  catapultato di colpo in un nuovo mondo, un paesino nel quale il nuovo e il vecchio coesistono tutt’ora, in un amalgama prodigioso, per lo meno visto con gli occhi di chi come me, arriva dall’Italia.
 
Daniela Pandozi