Sotto la pelle della poesia – Incontro con Mario Zito

Ci sono autori che scrivono per raccontare, e altri che scrivono per resistere. Mario Zito appartiene a entrambe le categorie: poeta, insegnante, autore di raccolte che sanno mescolare con sorprendente naturalezza il battito del cuore e quello della società. Le sue parole non si adagiano sulla superficie delle cose, ma scavano, graffiano, scavano ancora. Si fanno corpo. Si fanno, appunto, sottopelle.

Nato a Catania nel 1971, Zito vive da sempre la scrittura come un atto necessario, un modo per leggere e tradurre il mondo – che sia attraverso la poesia, la critica letteraria o la collaborazione con musicisti. Il suo percorso è ampio: dagli esordi in riviste universitarie, passando per racconti in prosa e lavori radiofonici, fino alle recenti raccolte poetiche che hanno trovato accoglienza calorosa da parte di lettori e critica.

Con “Sottopelle” (2023) e “Strappi” (2024), pubblicate entrambe da Le Mezzelane, Zito ha costruito un dittico poetico potente e coerente. Due opere speculari, diverse nei toni ma unite da un’urgenza condivisa: quella di dare voce al non detto, di riportare alla luce le emozioni trattenute, i dolori sussurrati, le verità sepolte tra le pieghe del quotidiano. L’amore, la memoria, la rabbia, il corpo, la società: ogni tema è attraversato con delicatezza e furia insieme, in una lingua che non si accontenta di descrivere, ma pretende di coinvolgere, scuotere, smuovere.

Poeta dell’intimità e della lotta, Zito guarda il mondo con occhi consapevoli ma ancora capaci di stupore. Lo fa anche dal suo banco di insegnante, dove il confronto con le nuove generazioni diventa spesso fonte di ispirazione e di consapevolezza. E forse proprio lì, tra le aule scolastiche e le pagine scritte, si consuma il suo gesto più coraggioso: quello di continuare a credere che la poesia possa ancora cambiare qualcosa.

Lo abbiamo incontrato per parlare delle sue ultime opere, del mestiere del poeta oggi, delle emozioni che ci attraversano – spesso senza far rumore – proprio là dove tutto comincia: sotto la pelle.

Intervista a Mario Zito – La poesia come gesto, corpo, memoria

1. Mario, partiamo dal titolo della tua ultima silloge: “Strappi”. Cosa significa per te questo verbo e perché hai scelto proprio questa parola per rappresentare l’intera raccolta?

Strappare è un verbo che indica lacerare, rompere qualcosa e ha sempre avuto un’accezione negativa. Io ho sentito il bisogno di ribaltare questa parola, di darle un nuovo respiro. Ero spinto dal desiderio di scrivere versi che partissero da una lacerazione, da un dolore ma che andassero oltre, allargando lo strappo per guardare la vita da una nuova prospettiva, oltre il buco creato. L’idea che uno strappo si possa sempre ricucire mi sa di una visione che si rassegni al dolore e poi ci si adatti. Strappare è per me superare il dolore e dare senso a ciò che si è patito per ripartire o iniziare del tutto un nuovo percorso.

2. In entrambe le raccolte, “Strappi” e “Sottopelle”, il corpo è centrale: la pelle, il respiro, le mani, i graffi. È come se la poesia fosse un’esperienza fisica, prima ancora che mentale. È così anche per te nel processo creativo?

Credo di sì. Da sempre ho la necessità di sentirmi vivo attraverso il corpo, il contatto fisico. La creatività risente di questa mia necessità e sicuramente nei miei versi si sente l’eco dell’esperienza fisica quasi carnale, non soltanto nelle poesie sentimentali ma anche nel modo di vivere la politica e l’impegno civile.

3. Nelle tue poesie si alternano due anime molto forti: da un lato la tensione amorosa, dall’altro la denuncia sociale. Come convivono queste due dimensioni nella tua scrittura?

Hai colto perfettamente le due anime poetiche delle raccolte. Nella poesia, più che nella narrativa, riesco a sentire ogni venatura che l’amore mi sollecita. L’amore inteso come esperienza non solo autobiografica ma anche l’amore sfiorato o colto negli altri, intravisto, immaginato. Senza amore non c’è creatività, non c’è voglia di sognare, non c’è vera felicità. E l’amore che scrivo porta in sé immagini carnali, sensuali, piene di passione non solo desideri ideali o separazioni dolorose. La stessa passione la riverso nelle poesie civili. Io credo molto nel ruolo dell’artista impegnato, piccolo o grande che sia. Mi piace schierarmi, denunciare, contrastare idee che non condivido. Lo faccio principalmente attraverso la scrittura, ma non solo. Spesso quando vado in giro a presentare i miei libri il dibattito prende spunto proprio dalle poesie di denuncia e il confronto è sempre molto importante. Credo che chi scriva, chi fa arte non possa non occuparsi della contemporaneità, non debba girarsi dall’altra parte di fronte ai genocidi, alle diseguaglianze, a tutte le ingiustizie sociali che purtroppo proprio per il crescente disimpegno aumentano in maniera esponenziale. Fino agli anni Settanta sembrava ovvio che gli artisti fossero impegnati. Adesso sono sempre meno coloro che lo fanno.

4. La Sicilia e il Mediterraneo sono presenze evocative e ricorrenti nei tuoi versi, non solo come luoghi geografici ma quasi come spazi dell’anima. Cosa rappresentano per te?

Sono profondamente siciliano. I luoghi, il mare, l’insularità, la cultura e la lingua li ho sempre con me, soprattutto quando sono lontano. E a volte si avverte la distanza dalla propria terra non necessariamente come distanza geografica. La Sicilia è un luogo magico, pieno di contraddizioni, sempre in bilico fra la tragedia e la commedia. Un luogo di contrasti, dalla storia millenaria. E in questa mescolanza di culture, popoli, colori sento di appartenere. A volte mi basta odorare il mare o passeggiare sulla sciara dell’Etna per sentire, per immaginare, per mettere ordine nel caos. Ma la Sicilia che sento di avere dentro è una terra difficile, dura, non solo mare e tramonti mozzafiato.

5. Hai spesso parlato dell’importanza della memoria e delle radici familiari. Cosa significa scrivere oggi, nel 2025, con la consapevolezza di venire da un passato così ricco di storie personali e collettive?

La memoria è fondamentale per la storia personale e collettiva, purché non rappresenti un peso. Essere legati al passato in maniera nostalgica talvolta rappresenta un blocco, un restare ancorati a persone e luoghi che nel tempo abbiamo idealizzato. La memoria serve a conservare le suggestioni, le immagini ma per proseguire e creare nuovi cammini, solo così liberiamo la memoria dal suo peso e la rendiamo parte integrante della nostra vita, deve essere un mattone su cui salire e non da portare costantemente dentro lo zaino. Anche la famiglia oggi andrebbe vissuta in maniera diversa, con l’idea che non si debba fermare solo ai vincoli di sangue ma deve diventare un luogo aperto. Non solo per allargarla ma soprattutto per riempirla di nuovi incontri, esperienze umane. La famiglia nella sua forma chiusa e tradizionale non sempre viene vissuta in maniera “sana”, spesso è il luogo in cui avvengono i maggiori conflitti oppure si galleggia fra finzioni e ipocrisie. Ripensare all’idea stessa di famiglia sarebbe un passo importante per la costruzione di una società più aperta e vicina alle esigenze della società contemporanea.

6. “Sottopelle” e “Strappi” sembrano complementari: la prima più intima e silenziosa, la seconda più esposta e ribelle. Sono nate nello stesso periodo o rappresentano momenti diversi della tua vita e della tua visione poetica?

Vicine temporalmente come edizioni ma provengono da due momenti personali distanti. Sottopelle è una raccolta di poesie accumulate da un decennio a questa parte. Avevo smesso di pubblicare poesie dedicandomi ad altre forme di scrittura ma non avevo smesso di scriverle. Un’estate le ho ritrovate, rilette e ho deciso che meritavano di uscire dal mio hard disk e così è stato. Strappi è una silloge più unitaria, più matura. Sono poesie scritte nell’arco dell’ultimo anno, un anno per me molto importante, di cambiamenti, di strappi la cui scrittura di queste poesie, spesso nate durante viaggi, mi è servita a leggere me stesso e il mondo intorno in maniera più approfondita, senza sconti, senza riparazioni o cuciture. Sono in effetti raccolte complementari perché sono due facce del mio percorso creativo, due momenti diversi e due sguardi che, come le rette parallele all’infinito, si incontrano.

7. Nei tuoi testi appaiono figure giovani, precarie, smarrite. È lo sguardo di un insegnante, di un padre, o del poeta che osserva la generazione presente?

Il mondo deve essere immaginato e costruito per le nuove generazioni. Questo dovrebbe essere il compito di un adulto, che sia un padre o un educatore o un politico. Quando scrivo immagino spesso in quale mondo vorrei vivere, perché sono convinto che meritiamo un mondo migliore di quello attuale. Lo immagino non tanto perché credo che lo potrò vedere ma perché sognarlo aiuta a costruirlo per chi verrà dopo di noi. I ragazzi sono lo specchio di ciò che abbiamo finora edificato. Il loro smarrimento o le loro incertezze e fragilità le abbiamo trasmesse noi attraverso un lento processo di desertificazione sociale, che ha reso tutto precario, in cui sostanzialmente conta solo il consumo o l’apparire. Nelle mie poesie non c’è però rassegnazione, anzi sento di voler trasmettere qualcosa che va oltre la denuncia, che spinga alla lotta, alla voglia di cambiare. I ragazzi devono prendere in mano la loro vita e il futuro ma con consapevolezza. L’arte deve accendere la luce, illuminare le zone d’ombra e dare la spinta al cambiamento. Qualche settimana addietro, ritirando un premio letterario, nella sala gremita mi sono accorto che i ragazzi seduti erano pochissimi. E ho voluto farlo notare nel mio discorso perché, se non riusciamo a coinvolgere le nuove generazioni alla poesia, all’arte difficilmente potremmo immaginare di costruire un mondo alternativo a questo che viviamo.

8. C’è un forte uso del linguaggio visivo: istantanee, fotografie seppiate, scene quasi cinematografiche. Quanto ti ha influenzato la tua esperienza con il cinema e la radio?

Il cinema è la mia passione principale. Passerei intere giornate, cosa che effettivamente mi è capitato di fare, a guardare film. È stato anche il mio lavoro, come critico. Passione che inconsapevolmente ho trasmesso a mio figlio che da qualche anno realizza cortometraggi (un paio ispirati proprio ad alcune mie poesie). Spesso quando scrivo poesie mi rendo conto che le giro, come se fossero immagini di un film. E molti lettori mi dicono che le mie parole suscitano immagini nitide e dirette come fotografie. Una contaminazione che sento molto forte sia come ispirazione sia come linguaggio. Invece, l’esperienza in radio credo che mi abbia influenzato maggiormente nella narrativa e nella saggistica, in quelle storie e personaggi che uno strumento come la radio attiva nella costruzione e nella conduzione di una trasmissione.

9. La tua poesia ha un ritmo molto “musicale”, a volte quasi cantautorale. Stai lavorando con musicisti, se non sbaglio? Come vivi il rapporto tra poesia e musica?

La collaborazione con musicisti mi ha aiutato nella ricerca di versi e di parole che possano entrare nelle trame musicali. La scrittura è però molto distante dalla poesia. Nella poesia la musicalità deve essere costruita dall’accostamento delle parole, dalla forza dei suoni che devono essere sprigionati dalla posizione nel verso. Quando scrivo testi per canzoni costruisco i versi in maniera differente. La parola si armonizza con la musica. Sono gli stessi cantautori che, quando sono stati accostati ai poeti, hanno sempre ribadito la distanza fra le due tipologie compositive. Però c’è una forte vicinanza espressiva e non dobbiamo dimenticare che dagli aedi ai trovatori la poesia nasceva accompagnata dalla musica.

10. Infine, cosa vorresti che restasse a chi legge le tue poesie? Quale strappo, o quale impronta, desideri lasciare sotto la pelle del lettore?

Penso che, quando si pubblica un libro, le tue parole vanno in cammino, un po’ come i messaggi dentro le bottiglie disperse in mare. Viaggiano e approdano in luoghi ignoti. Non sai mai cosa possa arrivare di te, del tuo pensiero, delle tue riflessioni. Spesso alle presentazioni intervengono lettori che vivono i miei versi in una maniera diversa da come li ho creati, dall’idea originaria e questo mi fa comprendere come ogni lettore riesca a cogliere o a penetrare nelle parole che scrivo in un modo imprevedibile. Se dovessi scegliere qualcosa da lasciare sotto la pelle dei miei lettori vorrei che fosse la voglia di continuare ad indignarsi verso ogni forma di ingiustizia, sviluppando forme di ribellione artistica come vero atto d’amore verso l’umanità.

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