Intervista a Mechi Cena, a cura di Rita Angelelli

Benvenuti, cari lettori e ascoltatori immaginari, nell’universo sonoro di Mechi Cena, dove i rumori della quotidianità si trasformano in sinfonie e le onde radio danzano come note ribelli. Preparatevi a un viaggio tra fischi, fruscii, tintinnii e rimbombi, perché oggi ci addentriamo nei labirinti sonori e narrativi di un artista che ha fatto del suono la sua materia prima e della sperimentazione la sua firma.

Mechi Cena è un nome che risuona. Letteralmente. Con un curriculum che vibra tra conservatori e teatri, studi di registrazione e performance sonore, la sua carriera è un concerto di esperienze uniche. Dai primi esperimenti con materiali tecnologici poveri alle collaborazioni con Francesco Michi nei F.lli Format – architetture sonore -, Mechi ha composto paesaggi acustici che stuzzicano orecchie e cervelli.

Non si è fermato alla musica: ha solleticato l’etere con radiodrammi e trasmissioni per RAI e Radio Svizzera, portando le sfumature sonore della vita quotidiana nei nostri salotti e nelle nostre cuffie. E se pensate che la parola scritta sia fuori tonalità rispetto alla sua arte, vi sbagliate di grosso! Con “Suonetti” ha dimostrato che anche la carta può cantare, e nei suoi romanzi noir il commissario Laitano si muove come un contrabbasso tra colpi di scena e note basse.

Insomma, Mechi Cena è un compositore di mondi sonori e narrativi, un funambolo che cammina sul filo teso tra il rumore e la melodia, il quotidiano e lo straordinario. In questa intervista, lo inseguiremo tra i riverberi della sua storia e i battiti del suo presente, sperando di non inciampare in un diapason ribelle o in un microfono acceso.

Mettetevi comodi, aprite le orecchie e preparatevi: il concerto sta per iniziare!

1) Se non fossi uno scrittore, quale sarebbe la tua professione alternativa ideale?
R. Uiui, ma io non sono uno scrittore. Mi capita di scrivere, anche per il lavoro quotidiano quello di cui campo. Anche lì mica hanno assunto uno scrittore. È vero che cerco di farlo scrivendo dignitosamente per evitare gli orrori dell’attuale lingua parlata. È vero anche che cerco di scrivere con chiarezza e in fondo, al lavoro, ho una platea di lettori quasi più ampia di quella dei miei romanzi. Ma per dirla alla Crozza/Bersani “non è che perché uno guida un motorino allora è un pilota”. Se però osservo la questione da un’altro punto di vista, per esempio con la tua casa editrice intrattengo un rapporto professionale chiaro, con tanto di compensi stabiliti e un contratto. Comunque riguardo al lavoro che farei sarei “salvatore di libri”: sono la mia vera passione. Una volta scrissi anche il numero zero di un programma di recensioni letterarie di libri invenduti e destinati al macero. Mi ero dato lo pseudonimo di Salvatore De’ Libray. Avrei salvato tutti i libri di Friedrich Glauser, di Geoffrey Holiday Hall, e l’unico scritto, e venduto decine di volte ad editori diversi per avere gli anticipi, di Alexander Trocchi. Quel programma però, non lo comprò nessuno.
Ma a proposito di mestieri che vorrei fare e di libri salvati dall’oblio c’è anche il “direttore di collana editoriale”, di cui sai, ma non mi hai ancora dato la risposta.
R. alla Risposta: Il posto è tuo, e lo dico qui dove tutti possono leggere. Tra qualche settimana inizierà una produzione davvero “sonora”.

2) C’è una parola o una frase che trovi irresistibile e che usi spesso nei tuoi libri?
R. Sì ma sono citazioni, ne uso molte, a volte intere poesie. Una citazione che mi ha divertito è di Richard Brautigan, è più o meno il titolo di un romanzo – in realtà, un prosimetro -, dimenticato ma che negli Stati Uniti ha avuto un grande successo diversi anni fa, anche se non si può dire lo stesso del suo autore: «e tutto questo è pesca alla trota in America.» Cosa vuoi… nella mia follia la trovo commovente. Ma mi accorgo che il citare, per me, fa parte del mio lavoro di “Salvatore De’ Libray”.

3) Qual è il commento più bizzarro che hai ricevuto da un lettore?
R. Non bizzarro, ma sentito e in diversi casi mi ha fatto un piacere enorme: “tu scrivi barocco” e, per pudore perché è proprio un esempio altissimo di scrittore non dico a chi altri era indirizzato questo commento; e “sembra di leggere Jean Claude Izzo”. Quando iniziai a immaginare (impresa quasi epica perché procurarsi le informazioni e i documenti allora era molto difficile) e scrivere Le femmine del babbuino io non lo sapevo che lui stava scrivendo la Trilogia di Fabio Montale. Quando l’ho letto molti anni dopo ho detto: «cazzo è arrivato prima lui.» Poi, purtroppo, i commissari, nei libri, sono diventati davvero troppi e a me continua a piacere uno dei primi: Ingravallo di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, per altro scritto proprio qui a Firenze, che è la città dove abito.

4) Hai mai scritto una scena così brutta che anche il tuo computer ha cercato di cancellarla da solo?
R. Mi è successo con un libro intero che non si trova più in commercio, per fortuna. È andata così. Era una specie di libro scritto su commissione per un editore porno, “erotico” diceva lui. Avevo roba scritta ma non era porno. Certo un bel cazzotto nello stomaco, ma non porno. Allora ci ho messo sopra scene spinte e passioni incontenibili quanto scabrose. Mi consolavo dicendomi che Bukowsky dichiarava di fare così anche per i suoi romanzi. Il risultato fu mediocre, credo. Però un’amica fraterna che lo lesse mi ribattezzò “il Bukowsky della padania”. Poi, da poco, la fetida editor MGB (persona di cui ho una stima estrema) mi ha detto: «a me quel libro è sempre piaciuto, perché non gli levi tutto il porno, aggiungi roba qua e là e lo facciamo diventare lo spin-off (si scrive così?) dei due pubblicati dopo?» E dunque rileggo il testo. Io ho dei seri problemi a rileggermi, addirittura in fase di editing, prima del “visto si stampi”, perché mi commuovo. Piangiucchio sulle mie frasi come un beota. Forse mi commuovo solo per la mia ingenua intenzione di scrivere, mi dico. Quindi vedremo. Intanto ho ripreso i diritti dall’editore porno. E comincio a riscriverlo ogni settimana.

5) Quante volte ti sei detto: “Questo sarà il libro che mi farà ricco” e poi hai riso amaramente?
R. Onestamente credo mai. Ma scusa, adesso una domanda la faccio io. Ma tu, editora di cui ho stima notevole, credi davvero che io possa vendere qualche copia in questo mondo dove tanti non sanno nemmeno farsi il nodo alle scarpe? O alla cravatta? E io “ci racconto di uno che ha vinto le olimpiadi nel Messico e di un incontro a Togliattigrad di due che si somigliano come gocce d’acqua”? (che poi in russo si chiama solo Togliatti e alla fine nemmeno uno sa chi cappero fosse Togliatti). Cerco di scrivere belle storie, rispettose di chi legge, nel senso che i miei personaggi usano oggetti usati davvero nel tempo in cui la storia si svolge, parlano quella lingua che si parlava allora, hanno a loro volta passati plausibili per quel periodo. Tutto qui. Posso avere passione per i libri di Salgari, che a Torino si era affittato un appartamento vicino alla Biblioteca Nazionale e ci faceva la spola per scrivere storie ambientate in luoghi (e tempi) dove lui stesso non era mai stato, ma so bene che questo, oggi, non funziona più. Ho una tendenza innata alla marginalità, ad essere sempre fuori luogo, a travalicare generi e confini, ad avere sempre in testa il cappello sbagliato. Non è un vezzo o un artificio, ma una condizione, a volte dolorosa. D’altra parte sono convinto che un libro così come una qualsiasi opera dopo che è stata scritta o suonata o presentata poi non è più dell’autore bensì di chi legge, ascolta, guarda. Può sembrare una banalità, detta adesso. Ma almeno dalla mia parte ci sono miei lavori diciamo di “musica allargata” come diceva il mio maestro Albert Mayr, fatti a partire dagli anni ottanta che testimoniano che la pensavo così anche allora. Lo so questa andrebbe spiegata. Ma mi confermano che la tua Casa editrice pubblicherà una monografia sul tema, se dio vuole non scritta da me, non è così?
R. alla risposta: Certo, tra pochissimo (il mio pochissimo e quello di MGB) sarà in nerissimo su carta.

6) Hai mai rubato idee da amici o parenti senza che loro se ne accorgessero?
R. Sempre, in ogni caso. Certe volte rubo anche parti di me senza dirmelo. Ogni singolo personaggio o storia sono presi da persone conosciute o incontrate e poi rimescolate. Il commissario Laitano, per esempio. Ma è uno dei tanti. Unga-unga, chiamato così perché al bar ordina un gaffè e un gappuccino – è di Avellino, come De Mita, il politico -, è un terrorizzante – ma reale – poliziotto della DIGOS che mi interrogò, una volta, in questura a Firenze. Laitano invece è Frascino un commilitone calabrese che lavorava in sala radio. A me non tornava che un calabrese fosse biondo e con gli occhi azzurri. Poi lo sentii parlare con un compaesano. Gli dissi: «Frascì, certo che è proprio strano ‘sto dialetto calabrese.» E lui: «ma non è calabrese, è albanese. Non lo sai che a noi delle trasmissioni ci prendono tutti da certi paesi dove si parla albanese così se il nemico ci intercetta non capisce una michia?» È così che sono venuto a sapere delle enclave albanesi nel sud dell’Italia. Anni dopo mi sono ingegnato a dare queste origini a Laitano. Mi sembrava una bella storia da rinnegato. In effetti tutti i personaggi che mi piacciono di più sono al minimo rinnegati o rinnegate, traditori o traditrici. E ho almeno due storie per tutti loro. La prima è chi sono o erano nella realtà, la seconda quella che gli ho cucito addosso. Quasi sempre tengo per me la prima e sovente anche la seconda, che però mi è utile conoscere. Per esempio, tornando a “un gaffè e un gappuccino”, Unga-unga, sono venuto a sapere che il poliziotto dall’aspetto raggelante che mi aveva interrogato era in realtà uno degli agenti più miti e gentili della questura. Ed è così che Unga-unga è un personaggio gentile, capace di amore, anche se con un passato orribile, osceno. Succede, è nella natura umana. Se non fosse così scriverei solo di storie e personaggi buoni per le serie TV. E comunque voi non state a domandarvi perché mai mi avessero interrogato alla DIGOS. Erano i primi anni ottanta e capitava. Ma ero candido come un agnellino.

7) Hai mai inventato una scusa assurda per non scrivere, tipo “devo osservare come cresce l’erba”?
R. Giuro, mi sono emendato da quando dico che faccio l’ascoltatore di professione, ma è effettivamente così. Sarà che preferisco ascoltare e guardare, piuttosto che parlare o scrivere. Passo un sacco di tempo a farlo senza produrre nulla, e senza avere troppi sensi di colpa. D’altra parte i miei personaggi sono rinnegati. Bene, lo sono anche io.

8) I tuoi personaggi sono mai stati così noiosi che hai dovuto “ucciderli” solo per rendere la trama interessante?
Noiosi no. Quelli che uccido spesso sono orrendi e vomitevoli eppure reali, una cosa tipo “la banalità del male” di Hannah Arendt. Alla storia vera mancano troppe nemesi, perciò mi organizzo per conto mio e nel mio piccolo a inventarne qualcuna io. Spesso, poi i malefici, li faccio morire in modo terribile, anche ammesso che esista una morte che non sia uno scempio. Pensa che l’algida e compassata MGB una di queste scene me la voleva proprio tagliare perché sosteneva che era troppo violenta. Eppure non c’era violenza nella descrizione. Era quasi una danza. Ma era una morte insulsa, come il personaggio meritava. Comunque questa cosa dell’ipotetico taglio di scena, MGB me l’ha confessato diversi anni dopo l’uscita…

9) Se potessi cancellare una pagina del tuo libro senza che nessuno lo sapesse, quale sarebbe e perché?
R. No, direi di no, semmai rimettere al loro posto una settantina di pagine di “Le femmine del babbuino”, quelle ambientate in Somalia ed Etiopia. C’erano e ricordavano l’orrore del colonialismo italiano, o cose più recenti come le guerre post-coloniali tra i due paesi. Non ci sono mai stato là ma ho studiato un po’ (come Salgari, no?). Sono posti molto pericolosi. Ma qualcuno mi ha fatto notare che in questo modo mancano tante spiegazioni tanti “motivi per cui” di alcune sottotrame. A me sembra di no, e comunque mi sembrava che costringere una persona a passare un sacco di tempo a reggere e in mano un tomo di due chili e mezzo a leggere un volume di quattrocento pagine fosse vilipendio di lettore, un reato grave. Quindi ancora adesso non so se pentirmene o rallegrarmene. Tanto più che quelle pagine sono davvero sparite ingoiate da qualche mio PC, restano solo nella mia memoria. Ma di quelle pagine mi è rimasto il desiderio di vedere con i miei occhi la luce e il cielo di una città etiope: Harar, un’enclave musulmana in territorio altrimenti di religione cristiana. E anche le donne di lì che so per certo essere molto belle.

10) Ti capita mai di leggere i tuoi vecchi scritti e pensare: “Chi ha scritto questa roba? Sicuramente non io”?
R. No, difficile che mi disconosca la paternità, al massimo chiedo scusa. Però mi è successo qualcosa di simile con un radiodramma degli anni ottanta. Tempo fa, casualmente, ho incontrato una signora che faceva l’aiuto regista alla RAI. Lei fu sorpresa ma mi raccontò di aver conservato il copione originale di un mio testo e le copie audio in cassetta. Tempo dopo me le ha fatte avere. Ancora dopo – in fondo non mi andava di tirare fuori quella vecchia roba – mi sono messo a trascriverle in digitale: una mappazza incredibile, sebbene animata di buone intenzioni. Il novanta per cento era noia pura, anche un po’ pretenziosa, e anche l’idea generale era una cretinata. Qualche momento buono c’era e mi scuso con me stesso pensando che ero un pischello di nemmeno trent’anni quando lo scrissi e realizzai. Ecco, questo davvero mi pare incredibile. La RAI che davvero spende svariati milioni di lire per produrre il radiodramma di un poco più che ventenne! Nemmeno raccomandato, solo abbastanza spudorato da presentarsi con la sua idea. Impensabile, adesso, purtroppo. Anche perché di prosa alla radio non se ne fa più. Comunque all’epoca piacque e fu anche replicato. Con i diritti d’autore ci ho campato un paio d’anni. E il copione con le annotazioni a mano della signora, che era assai disordinata e proprio per questo precisissima nel suo lavoro, mi pare ancora bellissimo. L’aiuto regista, alla radio, è un po’ come la segretaria di edizione, deve tenere a bada la continuità delle scene, perché un radiodramma si registra proprio come un film, raggruppando gli attori a seconda delle scene in cui recitano, pagandoli a giornata.

11) Se un personaggio del tuo libro diventasse reale, chi ti farebbe causa per diffamazione?
R. Credo sia il contrario. Siccome i miei personaggi sono assai reali, ce ne sono alcuni poco trasfigurati. Una è Femi Benussi, attrice, croata, nata in un paesino ex-italiano poi jugoslavo adesso croato. Splendida. Misconosciuta. Una delle poche attrici che ha detto di aver girato le “scene per il mercato estero” richieste dai produttori dove scopava per davvero. Animava le mie fantasie di adolescente italiano. Inutile dire che sono sempre stato innamorato di lei. È chiamata per nome in La sindrome di Bettega. L’altro è un pallanuotista che è talmente grosso che lo senti arrivare perché sposta l’aria. Ha vinto la medaglia d’oro alle olimpiadi e ha ricevuto un bacio in bocca dal Maresciallo Tito, come si usava fare nei paesi del socialismo reale. Riconoscibilissimo, se proprio qualcuno volesse ricordare cose perse nel tempo. Ambedue fanno un mestiere da persone poco raccomandabili, anche possibile, all’epoca. Come nota dico anche che del pallanuotista che sposta l’aria, non mi sono innamorato io, ma la marescialla MGB, sì. Di questo amorazzo impossibile a concretizzarsi vado fiero. Non è facile far innamorare una lettrice di professione di un personaggio.

12) Quando firmi i libri durante gli eventi, hai mai fatto un autografo così brutto da pentirtene subito?
Sempre, io proprio non lo so fare. Appaio, sono, sempre inopportuno. Un autografo è un’effrazione di ciò che hai scritto nella vita privata di chi legge o, quanto meno, ha comprato il libro.

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