Blog Tour "Mai e Sempre" di Bruno Sebastiani

Tra tutti coloro che commenteranno sui cinque blog e sull’evento dalla casa editrice verranno estratte a sorte tre copie in ebook e una cartacea del romanzo.

Iniziamo col dire che ci deve essere un paradiso speciale per gli scrittori di romanzi storici, quelli bravi voglio dire, un posto dove vengano trasmessi di continuo i loro brani musicali preferiti, dove i personaggi storici di cui hanno parlato vadano a fare loro visita e dove abbiano una totale, istantanea conoscenza del tempo. Questo perché in un buon romanzo storico l’unione tra la parte romanzesca, che costituisce per i fatti e i personaggi storici uno sfondo reale e umano su cui muoversi, e la parte storica, che questi fatti e personaggi descrive, crea una sinergia secondo me irresistibile.
Non a caso ho parlato di “buon romanzo storico”, perché, purtroppo, spesso e volentieri sia autori sia lettori pensano che un romanzo storico sia un normale romanzo, ma ambientato ai tempi di dame e cavalieri, per così dire.
Tengo perciò a precisare che un romanzo storico non deve essere necessariamente ambientato al tempo che fu, anzi, può essere chiamato a buon diritto romanzo storico qualsiasi narrazione romanzesca ambientata nel passato, fosse anche l’anno scorso, purché risponda a quelli che, a parer mio, sono due requisiti irrinunciabili.
Il primo è la ricostruzione storica, che deve essere basata sui documenti originali, in modo non diverso da ciò che farebbero un saggista o uno storico, fino ad avere una conoscenza sicura e precisa dell’epoca e dell’ambientazione in cui si collocherà l’opera. Questo comprende lo studio della biografia dei personaggi realmente esistiti che si vogliano inserire e di eventuali personaggi minori a cui ci si voglia  ispirare per costruire altri caratteri del romanzo.
Il secondo requisito è una accurata armonizzazione tra gli eventi reali e gli eventi romanzeschi. In altre parole, gli eventi romanzeschi non devono discostarsi, dal punto di vista coerenza storica e credibilità, da quelli reali. Tutta la trama deve quindi fluire senza intoppi da un evento all’altro, la palla deve passare da un personaggio all’altro, senza che sia possibile capire che cosa è vero e che cosa è inventato, se non per la conoscenza storica di base che ciascuno di noi ha di determinati fatti e personaggi.
Mai e sempre è un buon romanzo storico? O meglio, è un romanzo storico che rispetta i requisiti del suo genere?

Sinossi: La storia della Germania, dagli eventi tragici della seconda guerra mondiale, qui rappresentati dall'inumano bombardamento di Dresda, fino ai giorni nostri, fa da sfondo alla vicenda di Emil Koldau, nato nel 1980 a Moritzburg, non lontano da Dresda, nell'allora DDR. Per i primi tre anni della sua vita Emil cresce con la sensazione di vivere in un regno di cui lui è il principe e suo padre il re, ma il padre muore, ucciso da quattro colpi di Kalashnikov, fucile in dotazione esclusiva delle forze armate e delle guardie di frontiera, cosa che obbliga il commissario del piccolo paese ad archiviare l'indagine. Emil Koldau lascia Moritzburg per il settore est di Berlino, una Berlino ancora divisa in due, dove, seguendo le orme dello zio diventa corniciaio, restauratore, e dopo la caduta del muro, gallerista, ma la misteriosa morte del padre, una morte mai risolta, è un tarlo che lo rode dentro senza mai abbandonarlo, fino a quando, dopo aver visto uno strano film che parla di segreti, decide di tornare a Moritzburg e fare luce sul mistero. Ma mai si dovrebbe svelare un mistero che bene si sarebbe fatto a lasciare misterioso, e la ricerca si conclude nel modo più doloroso per Emil Koldau.

Un arco storico lunghissimo e denso di eventi significativi, per i protagonisti, per la Germania e anche per noi.
Partiamo dall’ambientazione e dagli avvenimenti. La storia inizia (dal punto di vista cronologico, non da quello dell’articolazione del romanzo), con la fine della seconda quella mondiale, in un paesino nei dintorni di Dresda, città il cui osceno martirio è protagonista di un testo famosissimo, Mattatoio 5 di Kurt Vonnegut. Le parole con cui Sebastiani descrive la distruzione di Dresda non sono meno impressionanti e potenti di quelle di Vonnegut, ma da esse è subito chiaro ciò che differenzia il romanzo storico dai ricordi del testimone oculare, quale fu Vonnegut.

In base ai piani, elaborati con elevato spirito umanitario, il 13 febbraio, durante le ore diurne, i bombardieri dell’Air Force statunitense avrebbero dovuto compiere le loro spietate incursioni, mentre il giorno dopo, durante la notte, sarebbe stata la volta dei bombardieri della Royal Air Force britannica. Per colpa delle pessime condizioni meteo il raid britannico colpì per primo, 796 Avro Lancaster e 9 De Havilland Mosquito raggiunsero la città alle dieci di sera, in due ondate, colpendo Dresda con un carico impressionante di bombe esplosive e incendiarie. Il bombardamento creò una tempesta di fuoco, con temperature che raggiunsero i 1500°. Lo spostamento dei gas caldi verso l’alto richiamò enormi masse d’aria al livello del suolo, producendo autentici tornado, con venti fortissimi che spingevano le persone dentro le fiamme.
Complice l’ora notturna, era possibile vedere quello spettacolo apocalittico anche da molto lontano, e Moritzburg era fin troppo vicino, nel senso che era come starci nel mezzo. Boati, deflagrazioni, sibili, fiammate che raggiungevano altezze vertiginose e il rombo ininterrotto degli aerei che sciamavano in cielo: da Moritzburg la gente attonita osservava la scena, senza poter fare altro che cadere in ginocchio sulla nuda terra per provare a impietosire chi dall’alto, se solo avesse voluto, avrebbe potuto mutare le bombe in ghirlande di fiori. Ma dall’alto non ci fu verso che qualcuno si impietosisse, le bombe restarono bombe, e men che meno si impietosirono i piloti della RAF, che ci diedero dentro per gran parte della notte. Col passare delle ore, il vento caldo sempre più forte e l’altissima temperatura non permisero più ad alcuno di allontanarsi da quell’inferno. L’aria calda degli incendi attirava aria più fredda dalla periferia della città e lì, per il violento contrasto, si generò una potentissima corrente ascensionale che si trasformò in un ciclone. L’equipaggio di un bombardiere statunitense che si trovò a sorvolare la zona nelle ore successive, vide arrivare a 8000 metri di quota detriti di vario genere, e questo basta a dare un’idea della potenza del fenomeno.
Il giorno dopo, il 14 febbraio, il cielo tornò a oscurarsi per l’arrivo di un numero impressionante di Boeing B-17, le famigerate fortezze volanti. In quattro ondate successive i mostruosi bombardieri rasero al suolo anche quello che la notte prima, per errore o per miracolo, s’era salvato. Al termine di quella giornata di Dresda era rimasto solo il nome, della città non era rimasto in piedi nemmeno un muro di cinta di un giardino di periferia. Macerie, macerie e solo macerie. Pareva che una mano pietosa avesse sgretolato la città e sparso i detriti sulle vittime, un numero incalcolabile di vittime, per assicurare loro una degna sepoltura.

Questo estratto contiene i dati della tragedia, raccolti con meticolosa cura: orari, numero dei mezzi, quantità degli esplosivi, modalità ed esiti della distruzione, il tutto però “aggraziato” dalla mano del romanziere che trasforma l’arido elenco in un pezzo il cui pathos stringe lo stomaco.
Quattro bambini assistono al bombardamento, e questo, come i molti avvenimenti tragici già accaduti nella loro breve vita, li segna. Uno di questi bambini diventerà il padre, oltre che la ragione della ricerca che è l’ossatura del romanzo, di Emil Koldau, il protagonista.
Ed ecco quindi che Sebastiani, seguendo prima Koldau padre e poi Emil, ci trasporta nella DDR e ci parla con maestria dell’atmosfera di sospetto creata dalla STASI, e poi a Berlino Est, per accompagnarci infine nella transizione che, attraverso la caduta del muro, porta alla Berlino, e alla Germania, nella quale io oggi vivo.
Tutte queste fasi sono descritte con la stessa minuzia, e con lo stesso pathos, utilizzati nel racconto della devastazione di Dresda, con un ammirevole lavoro di indagine.
Su questo affresco di fondo si muovono i personaggi, nessuno dei quali reale, eppure così vivi, veritieri, pieni di dettagli, congruenti nel loro modo di pensare e nei loro comportamenti con l’ambientazione da prendere vita davanti agli occhi del lettore.
Il flemmatico, un po’ frastornato e internamente ferito Emil; suo padre, figura un po’ mitica e un po’ losca, il cui omicidio irrisolto – e irrisolto per ragioni squisitamente storiche – è il motore della vicenda; la madre e le sorelle; lo zio Markus:

Fin da piccolo Markus Kuhn era stato conquistato dalla propaganda nazista, che era molto attiva sia all’interno delle scuole che fuori, nelle attività ricreative e nelle occasioni formative che coinvolgevano la quasi totalità dei giovani già a partire dai dieci anni di età. All’interno della famiglia il giovane Markus veniva considerato una testa calda e lui n’era quasi fiero, tanto che, a soli quindici anni, lasciò Moritzburg, si trasferì a Berlino ed entrò a far parte della Hitler-Jugend, la gioventù hitleriana. Nazista convinto, si fece apprezzare al punto da essere inserito nei ranghi delle Waffen-SS, nate nel 1939 come braccio militare delle SS.

Markus Kuhn era nato nel 1925 e nel marzo del 1945 si ritrovò in prima linea, in terra d’Ungheria, per quella che l’alto comando tedesco aveva soprannominato Unternehmen Frühlingserwachen, operazione risveglio di primavera. Infervorato nella sua fede nazista, diciamo pure fanatico al limite della demenza, il giovane Markus Kuhn si trovò a combattere contro le truppe sovietiche del terzo fronte ucraino. Dopo alcuni successi iniziali, l’operazione si concluse con un completo fallimento. Le Panzer-Divisionen subirono pesanti perdite e quei poveri soldati, intralciati anche dal terreno reso quasi impraticabile dal disgelo primaverile, non riuscirono ad avanzare. L’armata rossa, preponderante nel numero degli effettivi, aveva a sua disposizione anche delle unità meccanizzate, che fece intervenire impedendo ai reparti tedeschi di opporre la minima resistenza. Molti di quei giovani nazisti furono presi prigionieri, molti altri, quelli che non incontrarono la morte sul terreno acquitrinoso, retrocedettero fino al confine austriaco, contravvenendo così agli ordini del Fuhrer, il quale aveva esplicitamente comandato di resistere a oltranza. Per essere coerente con se stesso Hitler li accusò di insubordinazione e ordinò che fossero privati del bracciale onorario, una vera ignominia.

Un uomo, insomma, il cui percorso morale è emblematico di quello di tanti tedeschi della stessa generazione, prima ammaliati dal nazismo e di conseguenza psicologicamente annientati dalla sua caduta, feriti nel corpo e nello spirito e quindi rassegnati a essere altro, ammesso e non concesso che la vita desse loro una seconda occasione, come una seconda occasione è Emil per questo zio.
Con questi elementi – accurata raccolta di documentazione e sua resa viva e ricca di pathos; creazione di personaggi perfettamente coerenti – Sebastiani dà vita al suo romanzo, un meccanismo di grande precisione il cui scopo sembra essere quello di realizzare un’indagine sulla curiosità, quell’umanissimo sentimento che spesso ci porta a fare grandi scoperte, ma altrettanto spesso ad avere grandi delusioni, un sentimento al cui canto di sirena, costituito dal film la cui lunga descrizione costituisce il primo capitolo del libro, Emil Koldau non riesce a sottrarsi.
Mai e sempre è quindi un buon romanzo storico? O meglio, è un romanzo storico che rispetta i requisiti del suo genere? Sì, decisamente, e per questo merita di essere letto, e questo è un consiglio che vi do da lettrice col “pallino” dei romanzi storici e con l’ancor più grande “pallino” della Seconda Guerra mondiale con annessi e connessi, oltre che residente della ex Berlino Est, in una casa da cui si vede la Fernsehturm, la mitica torre della televisione.

Emil non aveva idea di come fosse fatta una città, non sapeva che una grande città spesso si dota di trasporti sotterranei per rendere gli spostamenti più veloci. Non aveva idea di cosa fosse una metropolitana. E quando suo zio lo fece salire su un convoglio della U-Bahn che, appena chiuse le porte, si lanciò in una corsa vertiginosa attraverso le viscere della terra; quando, col viso appiccicato al vetro del finestrino, si rese conto di trovarsi in una galleria che scorreva all’indietro come per facilitare la corsa in avanti del convoglio; quando s’avvide che per suo zio era normale, non gli faceva nessun effetto, e capì che lui era avvezzo al mistero dei treni sotterranei, cominciò a sentirsi orgoglioso di essere suo nipote. E quando, più tardi, tornò alla luce proprio al centro di una piazza immensa, una piazza di cui non si vedeva la fine, - era Alexanderplatz -, e suo zio lo prese per mano e lo condusse fino ai piedi della Fernsehturm, una torre altissima, tanto alta che sfiorava il cielo e che pareva avesse una stella incastonata sulla punta, gli strinse con forza la mano che teneva la sua come per rinsaldare un legame che, di fronte a quell’immensità, temeva di perdere.

Maria Grazia Beltrami