A me la parola – Violenza sulle donne. il rosa che si tinge di nero a cura di Vanessa Sacco

Come ogni mattina, accendo la tv su Rai News, metto il latte nel microonde mentre preparo la moka e controllo gli aggiornamenti sul telefonino. Dalla TV apprendo l’ultima iniziativa culturale pro sensibilizzazione al problema della violenza sulle donne, il 26 novembre è la giornata internazionale. Dall’email ricevo un invito di un’amica che non vedo da tempo a fare una donazione al Telefono Rosa attraverso un sms, ma il mio gestore telefonico me lo impedisce, così, dopo un breve scambio di commenti epistolari, decido di cogliere l’occasione per incontrarla.

– Dopo due anni di congelamento di progetti per mancanza di fondi, siamo finalmente ripartiti. – mi spiega con entusiasmo – Ad esempio, con i gruppi di auto aiuto: organizzati fra le donne vittime di violenza che ne hanno fatto specifica richiesta. Diamo loro la possibilità di riunirsi una volta a settimana, per tre mesi in tutto, e mettere in comune le loro esperienze con l’aiuto di una psicologa che ne faciliti la comunicazione, il sostegno reciproco e la capacità di fare rete anche dopo che il gruppo si sarà ufficialmente sciolto. Poi c’è la formazione degli operatori sanitari sulla prima assistenza alle vittime di violenza di genere e stalking, perché spesso è proprio il personale ospedaliero che opera in pronto soccorso a venire a contatto con la realtà della violenza domestica (quella da parte del partner rappresenta la percentuale maggiore) ed extra domestica (lo stupro da parte di estranei, ad esempio). Aggiudicandoci il bando di gara, per quest’anno abbiamo presentato un progetto intitolato Se tutte le donne del mondo, che ha coinvolto l’ospedale Pertini di Roma e l’A.U.S.L. di Rieti. Sette giornate in cui gli operatori aderenti saranno formati su vari temi come l’interazione e l’assistenza alle donne vittime di violenza, le conseguenze psicologiche e fisiche sulla vittima, il riconoscimento di fenomeni di violenza sessuale e domestica, gli aspetti legislativi e gli obblighi giuridici, lo stalking (non dimentichiamo il moderno cyber-stalking, diffuso soprattutto, ma non solo, fra gli adolescenti, ovvero l’atteggiamento ossessivo, maniacale, psicologicamente deviato che il molestatore attua attraverso i social network ai danni della partner da cui è stato abbandonato), la prassi clinico ospedaliera da seguire in questi casi, gli aspetti medico legali del maltrattamento, le modalità d’aiuto per uscirne, le reti territoriali, i servizi di supporto eccetera. E poi abbiamo vinto il bando che riguarda la gestione del numero nazionale di pubblica utilità 1522, attivo dal 2006 ad opera del Ministero delle Pari Opportunità, che a differenza del Telefono Rosa è un call center vero e proprio nazionale, attivo tutti i giorni ventiquattr’ore su ventiquattro, direttamente collegato con il 112 e il 113 che l’operatrice telefonica, previo consenso della chiamante, può interpellare qualora ci sia un’urgenza di intervento, e che rimanda il caso ai centri antiviolenza che hanno aderito al servizio più vicini alla zona da cui la vittima, o chi per essa, chiama.

– E tutto questo senza prendere neanche un euro?!

– Assolutamente! – mi risponde con fermezza. – Viviamo di bandi di gare, gettoni di presenza per i professionisti che fanno formazione, ma soprattutto donazioni da parte di privati. Tanti ci inviano curricula anche molto competenti chiedendoci di lavorare per noi, ma il Telefono Rosa è un servizio di volontariato. Lavoriamo, certo! Eccome se lavoriamo! Ma non per soldi.

– È da quando ti conosco che ti sento parlare del Telefono Rosa. Da quant’è che ci stai dentro? – le chiedo con ammirazione.

– Avevo ventisette anni. Mi ero già laureata, avevo superato l’esame di stato e mi ero iscritta all’Albo, senza cui non avrei potuto svolgere alcuna consulenza. La mia terapeuta dell’epoca, sapendo che in Associazione servivano delle nuove volontarie psicologhe, me lo propose. Ho fatto un colloquio con la presidente e nel giro di qualche giorno mi sono ritrovata in prima linea. Non ho mai risposto al telefono, cioè non sono mai stata tra le volontarie che accolgono le storie, ma ho sempre fatto, e continuo a fare tuttora, incontri in sede con le vittime. Le prime volte, la cosa più difficile era farsi una ragione del fatto di non poter scegliere per loro. Mi addolorava pensare che una volta uscite di lì sarebbero tornate dal proprio carnefice, ma poi, con il tempo e l’esperienza, è diventato più facile lasciare che ogni donna maturasse la propria scelta, accettare che avesse bisogno di tempo, persino che non volesse uscire dalla situazione drammatica che stava vivendo. Anzi, in questi casi ho imparato a procedere a piccoli passi per rafforzare l’autostima delle vittime e per portarle a prendere decisioni autonome.

Man mano che Gabriella va avanti col racconto di questa sua ispirata dedizione alla causa, mi rendo conto che ne so proprio poco sul Telefono Rosa. Ricordo l’ultimo spot che lo pubblicizza, mi è rimasta impressa l’attrice; mi era già piaciuta in una serie TV che la rete su cui andava in onda sospese per mancato raggiungimento di share, ma tolto questo, cos’altro ne so? Ancora una volta, la fiction ha sminuito la realtà e il simbolo è stato scambiato per la cosa rappresentata. Così le chiedo delucidazioni, sperando di recuperare il tempo perduto.

– Il lavoro della nostra Associazione comincia per telefono (le operatrici volontarie, rigorosamente donne e appositamente formate, accolgono le telefonate dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 18.00 dal lunedì al venerdì, prendono sommariamente delle informazioni sulla storia della vittima e la invitano a recarsi in Associazione o a rivolgersi ad altre strutture similari presenti sul suo territorio, perché il Telefono Rosa non c’è in tutte le città), ma poi ci si augura che la nostra azione continui di persona, poiché le consulenze psicologiche e legali hanno inizio solo quando la donna arriva da noi. Il nostro fine ultimo è pur sempre l’auto responsabilizzazione della vittima. Tanto più che chi cerca aiuto è coperto da anonimato, e questo, in un certo senso, è una garanzia: nessuno al di qua dal filo potrà mai prendere una decisione al posto della vittima, anche se ciò dovesse essere motivato da tutto lo spirito caritatevole di questo mondo, perché un atteggiamento del genere lederebbe la privacy dell’assistita e, tutto sommato, non implicherebbe fino in fondo il suo bene, ma la farebbe sentire per l’ennesima volta manipolata e inadatta a prendere decisioni da persona adulta capace di intendere e di volere. Ogni operatrice, in cuor suo, spera di dare un volto a quella voce angosciata che si è annunciata con un nome fittizio, utile alla compilazione della scheda che, per fini pratici e di statistica come la ricerca annuale Le voci segrete della violenza, le volontarie sono tenute a compilare. La presa di coscienza che porta la vittima a mostrarsi con coraggio in tutta la sua fragilità, è una via dolorosa ma necessaria per voltare pagina, eppure molte non riescono ad andare oltre, lo considerano un tradimento verso il partner, o il proprio padre, un parente, l’amico di famiglia insospettabile, il proprio datore di lavoro, il fidanzatino che non si può mettere a paragone con nessun’altro perché è il primo amore.

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Ma in nome di cosa si comportano così? Spirito di abnegazione? Fedeltà alla famiglia? Disposizione al sacrificio per il bene dei figli? Dubbi sulla gravità del torto subito? Necessità di mantenere il proprio posto di lavoro senza creare problemi? Mancanza di autostima? Quali sono i motivi che portano una donna a soprassedere? Quanta parte ha la cultura in ciò? Mi viene in mente che, forse, una persona dal grado di istruzione basilare non possiede una capacità di giudizio e d’azione su cui una mente aperta e informata, al contrario, può contare. Oppure è un certo bigottismo religioso, l’archetipo della donna passiva, conservatrice e mite a dettare le sue leggi?

– Purtroppo la violenza è una livella, come diceva Totò. – osserva amaramente Gabriella. – Ho visto donne emancipate, istruite, con posizioni lavorative invidiabili, tentennare, sentirsi smarrite, perdere ogni sicurezza nel momento di passare dalle parole ai fatti. Solo quando la violenza tocca i loro figli, le più sembrano risvegliarsi da questo torpore che le attanaglia e rimpossessarsi della propria vita.

Ma può davvero essere così difficile denunciare il proprio carnefice, chiunque esso sia? Non dovrebbe prevalere, sempre e comunque, un certo spirito di sopravvivenza in barba a un passato consolidato che tuttavia si dimostra effimero nel momento in cui vengono meno i diritti fondamentali della persona? Chi non ha mai avuto esperienze dirette o non ha mai conosciuto persone coinvolte in simili drammi, pensa siano cose da film, o al massimo ricordi di anziani su epoche e costumi arcaici.

Noi di Mezzelane ci occupiamo della violenza di genere con un concorso letterario gratuito, in collaborazione con l'Associazione culturale Euterpe e Centro antiviolenza Artemisia

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Chi di voi si ricorda quando in Italia esisteva il delitto d’onore? Una riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella in nome di un presunto onore personale o familiare macchiato dalla stessa (mai che la cosa avvenisse anche per l’uomo). Io non ne ho memoria, naturalmente, ma ho ben in mente Divorzio all’italiana, quell’insuperabile commedia del ’61 che affrontava con leggerezza un argomento tutt’altro che leggero. Naturalmente Pietro Germi, sceneggiatore e regista del film, aveva voluto relegare il fenomeno a una dimensione ridicola seppur per niente isolata (la storia è ambientata in Sicilia), mostrando con ironia l’Italietta dura a morire nonostante le influenze ideologiche più moderniste e un crescente boom economico tipico del decennio da poco iniziato.

Il delitto d’onore, comunque sia, in Italia fu abolito soltanto nel 1981, con la Legge n° 442, che invalidava, così, anche l’assurda appendice del cosiddetto matrimonio riparatore, unico rimedio, legalmente riconosciuto, per scongiurare il crimine passionale (all’epoca, infatti, nel nostro paese non esisteva ancora il divorzio, e da qui il fantasioso titolo della pellicola).

Certo, i tempi sono cambiati, ma se ancora oggi si parla di violenza maschile su soggetti fisicamente più deboli come le donne, vuol dire che le modalità saranno pure diverse, ma la sostanza è la stessa.

Cosa porta un uomo a picchiare, molestare, perseguitare, uccidere la donna che si ha amato o che si desidera contro la sua volontà? Cos’è che gli fa anche solo pensare di poter assoggettare una donna in nome della propria virilità?

Finché lo scontro di volontà tra il genere maschile e quello femminile continuerà ad avvalersi dell’elemento forza, come in una sorta di paradossale, primitiva lotta di sopravvivenza (ricordiamoci che è la donna a dare la vita, anche se per far questo ha bisogno dell’uomo), ogni gara risulterà inevitabilmente impari, poiché la parità dei sessi non significa equivalenza, ma stessi diritti in qualità di persone; quanto a esigenze, forma mentis e peculiarità intrinseche, c’è complementarietà, non coincidenza.

Finché il valore di un essere umano sarà misurato in termini di rendimento produttivo e di capacità di prevaricare sull’altro, e, di conseguenza, le donne saranno ritenute palle al piede in una società che non pensa al domani, ma all’oggi, dove le politiche per la famiglia sono ridicole, la maternità è considerata un handicap – o, presso alcune culture, l’unica ragion d’essere della donna – , chi organizza colloqui di lavoro strizza l’occhio alle candidate senza fede al dito, la legge – se è vero che dove non c’è punizione, non c’è neanche reato – agisce con lentezza pachidermica nei confronti del femminicidio, l’avvenenza è considerato l’unico mezzo con cui una giovane possa farsi strada e valori come la capacità di mediazione e lo spirito naturale di conservazione propri delle donne sono ancora ritenuti beni accessori, sarà 26 novembre tutti i giorni. Dovrà essere 26 novembre tutti i giorni. Perché il rosa delle donne, si tingerà ancora di nero.

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Vanessa Sacco è nata a Catanzaro nel 1973 ma vive a Roma. È laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne; diplomata al Conservatorio Teatrale di Giovanbattista Diotajuti ha lavorato come attrice soprattutto nella Compagnia Teatrale del maestro Luciano Damiani e ha fondato la compagnia N.O.D.A. Nuova Officina degli Artisti, con cui ha svolto anche laboratori nelle scuole. Ha collaborato con il giornale online Catanzaroinforma, dove ha curato una rubrica di opinione dal titolo Mettiamolacosì. Oggi insegna e per hobby canta in un coro. Con Le Mezzelane pubblica “Amorevoli asimmetrie”.